Foto: Stefania Lucchetti
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Guardare l’invisibile: sguardo, complessità e memoria delle relazioni che hanno perso il senso
Destrutturazione delle relazioni
Con la mia consueta abitudine di offrire in alternanza e senza filtri emozioni e ambientazioni espansive così come pensieri e racconti di situazioni difficili, il post di oggi affronta un argomento nè semplice nè piacevole. E’ un argomento però che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni nelle innumerevoli e incessanti notizie di violenza domestica.
“Il cavaliere e il drago,
la bella e la bestia,
la luce e l’ombra,
la frattura interiore della tua mente
che tu non hai potuto, non hai voluto
saldare
è ora una distanza senza ponti.”
(La scatola nera, Stefania Lucchetti, Macchie di caffè sui miei libri, Albatros 2024)Estratto dalla poesia “La scatola nera”, Stefania Lucchetti, Macchie di caffè sui miei libri, Albatros 2024, raccolta di poesia contemporanea.
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Quando una relazione attraversa il territorio della violenza, ciò che accade è raramente lineare. Non sempre c’è una narrazione chiara da offrire al mondo. Perchè sei rimasta? E’ la domanda sempre aleggiante nell’aria, implicita in uno sguardo di disapprovazione o esplicita in un tono di giudizio.
La violenza psicologica è ancora più difficile da raccontare e comprendere. Le dinamiche che si instaurano sono lunghe, lente, fatte di ambivalenze, inversioni di ruoli, e un lento, inesorabile smottamento dell’identità. Il trauma, anche quando non lascia segni sul corpo, stratifica una memoria difficile da ordinare. Come suggerisce Paul Ricoeur nel suo saggio La memoria, la storia, l’oblio (2000), la memoria di un evento o serie di eventi che hanno causato traumi (nel significato originario greco “τραῦμα” -traûma – che significa “ferita” o “lesione) non è mai una pura registrazione, ma un atto interpretativo segnato dalla ferita. Il trauma resiste al racconto, si sottrae alla linearità e costringe chi lo ha vissuto a rielaborare frammenti incoerenti. È in questo scarto tra ciò che è accaduto e ciò che si riesce a dire che si colloca la complessità delle relazioni violente, che la violenza sia fisica o psicologica. Nel guardarli indietro, quando sono finiti, e cercare di ricostruirne il senso, la progressione, la verità.
Il problema è che non si vede più nulla con chiarezza. O meglio: ciò che si vede è talmente frammentato da risultare incondivisibile. La memoria si presenta come una scatola nera: registra tutto, ma non restituisce immediatamente il significato dell’impatto. In particolare la violenza psicologica deposita sedimenti complessi, che resistono alle narrazioni semplici. Da fuori si cercano colpevoli e innocenti, si chiede chiarezza, linearità, coerenza, ragioni. Ma dentro, chi ha vissuto la frattura, sa che il rapporto causale, le ragioni di ciò che è accaduto, sono una distanza non più colmabile con ponti logici.
Parlare di violenza psicologica è scomodo. Farlo da dentro lo è ancora di più perchè è necessario riconoscere la propria impotenza, assenza di visione, a volte presunzione nell’aver pensato di poter fare meglio, di poter cambiare le cose, di poter trovare una soluzione, ed essere invece poi rimasti incastrati dentro una situazione senza ritorno. Il non essere stati in grado di sfuggire alla manipolazione, al controllo. L’aver confuso la paura con l’amore e avere accettato la perdita di sé che avviene per micro-dosi quotidiane è qualcosa di difficile da accettare.
Per questo molto spesso chi ha vissuto queste relazioni fatica a raccontarle: non per mancanza di parole, ma per mancanza di fiducia in un ascolto adeguato. Perché ciò che si è vissuto sfugge ai codici narrativi tradizionali: non ci sono testimoni, non ci sono prove tangibili, e ciò che resta è un insieme di sensazioni, scarti emotivi, frammenti che spesso non trovano comprensione nè legittimazione.
Salvatore Quasimodo: Uomo del mio tempo

Chi è nel torto, chi ha ragione, chi ha iniziato, chi finisce. Chi è l’oppressore, chi l’oppresso. Ogni conflitto sembra moltiplicare le narrazioni, ognuna convinta della propria verità. Ma forse è proprio questo il punto: quando si rompe un patto – tra persone o tra popoli – a rompersi non è solo la relazione, ma anche il senso. Non ci si capisce più. Si perde la grammatica del dialogo, e ognuno resta con la propria versione dei fatti, irreconciliabile con quella dell’altro.
Arriva un momento in cui non si riesce più a ricostruire la verità originaria. Ciò che resta è un deserto di senso, un dopo dove non si sa più chi si è stati, né perché si è arrivati fin lì. E non si sa come uscirne.
Lascio per riflettere una poesia di Salvatore Quasimodo del 1946. Salite dalla terra, dimenticate i padri, scrive Quasimodo. E’ un’esortazione a dimenticare le origini di qualsiasi cosa sia successo, lasciare indietro il richiamo del sangue e della terra, della vendetta dei padri, e prendere le decisioni migliori per il futuro.
Rassegna stampa aggiornata che include anche alcuni articoli usciti su stampa internazionale.
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Macchie di caffè sui miei libri è una raccolta di poesia contemporanea che esplora le complessità delle relazioni umane, dai delicati legami affettivi alle connessioni trasformative con luoghi, arte e lo straordinario. Acquistala in tutti i negozi e librerie: